
La diagnosi di tumore rappresenta l’inizio di un viaggio, più o meno lungo, attraverso numerosi paesaggi, rappresentati dalle diverse fasi della malattia. In questo viaggio ogni paziente è accompagnato dal proprio oncologo, il cui ruolo va ben oltre l’indicare la terapia o il descrivere l’intervento chirurgico al quale ci si dovrà sottoporre. L’oncologo è un punto di riferimento importante per chi riceve una diagnosi di cancro e, come tale, deve rappresentare un alleato al quale potersi rivolgere con fiducia e onestà, anche nei momenti più difficili della malattia o nel prendere decisioni importanti riguardo la propria salute.
Comunicare (in modo onesto) e comprendere (anche i dettagli)
Come in ogni relazione, anche in quella tra medico e paziente la comunicazione ha un ruolo da protagonista. Parlare di cancro e spiegarne tutti i risvolti non è mai stato semplice – né per il medico, né per il paziente – e lo è ancora meno oggi, in un mondo nel quale l’oncologia è diventata una materia complessa con l’introduzione della genetica, della biologia molecolare e di esami e trattamenti sempre più precisi e personalizzati.
Pazienti e medici devono quindi ricalibrare il modo di comunicare per essere certi di comprendersi fino in fondo. È un diritto del paziente chiedere spiegazioni ogni volta che qualcosa risulta poco chiaro ed è dovere del medico spiegare ogni dettaglio anche più volte per informare in modo adeguato chi ha di fronte.
Nel rapporto con il proprio oncologo l’onestà è una delle chiavi di volta: è importante descrivere tutti i sintomi fisici e le sensazioni o emozioni che la malattia e i trattamenti portano con sé, per aiutare il medico a consigliare la via migliore per proseguire e per aiutare se stessi a capire meglio come ci si sente. Inoltre, perché il rapporto funzioni davvero è fondamentale sentirsi a proprio agio con l’oncologo. Anche il migliore dei medici, con un curriculum professionale invidiabile, potrebbe non essere la persona giusta con la quale instaurare un rapporto ottimale. Sono tante le variabili sociali ed emotive che entrano in gioco e che non possono essere ignorate. E se proprio non si riesce a stabilire una buona relazione con l’oncologo? Non c’è niente di male nel cercare un sostituto che risponda meglio alle proprie esigenze e al proprio modo di sentire.
Cosa è meglio per me?
Non esiste una formula matematica per stabilire la relazione perfetta tra medico e paziente. Ogni paziente è diverso e diverse sono le sue esigenze: per questa ragione anche l’alleanza con il medico dovrà essere “cucita su misura”.
Semplificando molto, si possono identificare tre modalità di interazione con il proprio medico, in questo caso l’oncologo:
- passiva: il medico prende tutte le decisioni;
- condivisa o collaborativa: il medico prende le decisioni tenendo conto del punto di vista del paziente;
- attiva: il medico fornisce tutte le informazioni, ma la decisione finale spetta al paziente.
Nessuna di queste modalità è migliore delle altre in assoluto, ognuno deve riflettere e capire quale è più adatta alle proprie esigenze.
Solida alleanza e decisioni condivise
È finito il tempo in cui il paziente era solo un passeggero nel viaggio attraverso l’esperienza del cancro. Oggi, grazie anche alla tecnologia, ogni paziente ha la possibilità di informarsi e di essere parte attiva del proprio percorso di cura, sempre rispettando il ruolo dell’oncologo e di tutto il personale sanitario.
Questo non significa che “il dottor Google” o forse oggi il “dottor Intelligenza Artificiale” possano rappresentare validi sostituti del proprio oncologo: il rapporto diretto con il medico resta la base più solida sulla quale costruire tutto il percorso di cura, ma di certo oggi ogni paziente ha maggiori possibilità di informarsi e di essere parte attiva della cura, in un certo senso si tratta di passare da passeggero seduto sul sedile posteriore a co-pilota, come suggerisce il titolo di un lavoro pubblicato qualche anno fa sulla rivista JCO Oncology Practice, una rivista della Società Americana di Oncologia Clinica (ASCO).
Non si tratta certo di “scavalcare” il medico, ma piuttosto di stabilire una solida alleanza terapeutica e arrivare magari a quella che gli anglosassoni chiamano “shared decision medicine” una medicina basata sulla condivisione tra medico e paziente. In questo approccio alla medicina ci si confronta sul percorso di cura e sulle scelte da compiere tenendo conto non solo del punto di vista del medico, che si basa soprattutto sui dati clinici e di efficacia di un trattamento, ma anche delle preferenze del paziente, che invece possono essere influenzate da fattori personali, dal contesto familiare e da molto altro ancora. Essere parte attiva della propria cura può aiutare ad accettare ed affrontare anche le fasi difficili del percorso, inclusi gli effetti collaterali della terapia, e a non avere ripensamenti sulle scelte fatte.