«Il nostro approccio nei confronti dei pazienti deve cambiare: servono meno pregiudizi e più chiarezza per comunicare e condividere la strategia terapeutica». L’«empowerment» è il pane quotidiano di Filippo de Braud, direttore del dipartimento di oncologia medica all’Istituto Nazionale dei Tumori, ordinario all’Università degli Studi di Milano e membro del comitato scientifico della Fondazione Umberto Veronesi. «Ogni giorno cerco di spiegare ai miei studenti come occorre approcciare al paziente. La comunicazione di una diagnosi e di una prognosi non possono essere più unidirezionali - ha dichiarato lo specialista nel corso del primo forum internazionale sull’«empowerment» dei pazienti oncologici -. Oggi chi è di fronte a noi è molto più informato rispetto al passato. Ed esige la condivisione di più informazioni».
Riuscite a garantire tutto ciò in un’epoca in cui è richiesto di ridurre i tempi di visita e aumentare il numero dei pazienti trattati?
«Tutti gli oncologi sono consapevoli di dover far fronte a questa necessità. Il sistema sanitario non si è ancora aggiornato, ma stiamo provando a farlo a livello di singoli reparti e ambulatori. Durante il percorso terapeutico, almeno nei momenti in cui si assumono le decisioni più importanti, un paziente deve sempre avere una figura di riferimento a cui poter fare affidamento».
Cosa occorre per sviluppare l’«empowerment» tra il medico e il paziente?
«La capacità d’ascolto, da parte nostra, è la prima qualità richiesta. Quella di comunicazione deve venire di conseguenza. I pazienti si presentano nei nostri studi molto più informati, rispetto al passato. Ma le nozioni di cui dispongono possono non essere corrette o necessitare comunque di un approfondimento. Quando illustriamo una terapia, dobbiamo ricordarci sempre che chi è seduto di fronte non vuole più subirla, ma comprenderla e condividerla».

Vuol dire questo mettere il paziente al centro del processo decisionale?
«Significa rispondere a tutte le sue esigenze: c'è chi chiede rimedi al dolore, chi pretende di comprendere a fondo la strategia terapeutica, chi non vuole sentire parlare di prognosi. Dobbiamo saper agire di conseguenza, andando incontro ai bisogni del singolo malato. Un atteggiamento uguale per tutti non è più sufficiente».
Nel 2017 questo approccio è garantito a tutte le latitudini?
«Esistono delle differenze tra i singoli Stati. In Italia, per esempio, serve più tempo perché un nuovo farmaco venga messo a disposizione da parte dell’Agenzia del Farmaco. Da quel momento in avanti, però, risulta passato dal Servizio Sanitario Nazionale a tutti i pazienti: cosa che non avviene invece in Gran Bretagna e nei Paesi scandinavi. La differenza emerge anche sul piano tecnologico e di accesso ai trial clinici, che rappresentano ormai una nuova opportunità di cura».
Chi è il destinatario dei messaggi che sono stati diffusi durante il Forum?
«I professionisti in formazione: medici, infermieri e psicologi. E il paziente, naturalmente. L’empowerment è un processo educazionale, che di conseguenza deve essere garantito a chi s’appresta ad affacciarsi al mondo del lavoro. Gli specialisti del futuro dovranno sempre tenere a mente che il paziente vuole essere parte attiva del proprio percorso terapeutico. La transizione richiede del tempo, ma è partita. Il Forum ha rappresentato un’occasione per dare impulso in questo senso. Guai ad abbandonare ancora anche un solo altro paziente».

