Oncologia

Epatite B e tumori: un motivo in più per fare prevenzione

L’uso degli analoghi nucleotidici contro il virus sembra aumentare il rischio di tumori del colon e della cervice uterina. Ecco perché queste persone devono sottoporsi a controlli più frequenti

Le persone affette da epatite B cronica trattate con analoghi nucleosidici sembrerebbero avere un maggior rischio di sviluppare un cancro al colon e tumore alla cervice uterina. L’informazione arriva da uno studio presentato al “The International Liver Congress” (EASL) in corso a Barcellona, ad opera degli scienziati della China University di Hong Kong. Niente allarmismi, ma nella lotta al cancro la diagnosi precoce è tutto.

Prima si arriva a “scovare” il tumore - quando questo è ancora nelle fasi iniziali di sviluppo - e maggiori sono le possibilità di sconfiggere la malattia. Ecco perché in questa particolare categoria di pazienti è necessaria una sorveglianza maggiore rispetto al resto della popolazione. 

DIAGNOSI PRECOCE

Nello studio, che ha visto la partecipazione di circa 45 persone con epatite B cronica, gli scienziati cinesi sono andati ad analizzare l'incidenza di alcuni tumori come quello al colon, alla cervice, al seno e ai reni. Confrontando i dati è emerso che nei malati curati con questi farmaci aumentava in maniera significativa le probabilità di sviluppare un cancro al colon e della cervice uterina. Per contro le probabilità di sviluppare altre forme tumorali è risultata identica tra quelli trattati con gli analoghi e quelli con altri approcci terapeutici.

Come spiega il professor Tom Hemming Karlsen, vice presidente di EASL, «Questo studio su larga scala ci fornisce indicazioni molto interessanti per migliorare sempre di più le strategie di prevenzione e diagnosi precoce. In questi pazienti è utile intensificare i controlli per quelle due tipologie di tumore».

CHE COS'E' L'EPATITE B

L'epatite B è un'infezione del fegato causata da un virus a DNA. Il virus viene trasmesso attraverso fluidi corporei quali sangue, liquido seminale e secrezioni vaginali. L’epatite B può inoltre essere trasmessa dalla madre al nascituro durante il parto. La malattia provoca un'infezione acuta del fegato, che può evolvere in diversi modi a seconda delle condizioni immunitarie del paziente. Più del novanta per cento delle persone infettate sono in grado di eliminare il virus in sei mesi.

Il restante dieci per cento circa di persone contagiate non è in grado di debellare completamente il virus e va incontro quindi ad una epatite a lungo termine o cronica. Per le infezioni acquisite in età infantile le proporzioni sono invertite con un rischio di quasi il 90% di cronicizzazione. L'evoluzione cronica della malattia può portare a serie complicanze come fibrosi, cirrosi, insufficienza epatica e tumore del fegato. Per prevenire la malattia ormai da diversi decenni è disponibile un vaccino efficace.

COME SI CURA?

Generalmente il trattamento dell'infezione acuta non consiste in nessuna specifica cura. Il corpo è infatti in grado di eliminare il virus con successo nella gran parte dei casi. Le terapie servono invece quando si è di fronte ad un'infezione cronica. Una cura finalizzata a migliorare la qualità della vita e la sopravvivenza, prevenendo la progressione della malattia verso la cirrosi, l'insufficienza epatica e il tumore.

Ad oggi esistono due trattamenti antivirali disponibili per l’epatite B cronica che generalmente durano dai 6 mesi all'anno: l'interferone pegilato alfa e il trattamento con analoghi nucleosidici. I secondi vengono scelti con più frequenza in quanto l'interferone presenta effetti collaterali maggiori. Ed è proprio su questa classe di farmaci che si è concentrata la ricerca presentata al congresso EASL. 

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