Quanto costa essere migranti in terra straniera, in termini di salute? Parecchio, stando a quanto dichiarato nei giorni scorsi al ECC di Vienna. La nazionalità e lo status di rifugiato incidono pesantemente sulle opportunità di affrontare efficacemente i tumori, dato che sia la diagnosi precoce sia le terapie risultano molto più difficoltose. Lo ha spiegato in un’intervista Alexandru Eniu, senologo presso l’istituto oncologico “I. Chiricuta” di Cluj-Napoca, in Romania e Chair del Comitato per i Paesi emergenti dell’European Society of Medical Oncology (ESMO).
«I rifugiati e i migranti, a causa del loro spostamenti, non hanno accesso a screening o alla diagnosi precoce. Avendo un accesso limitato ai sistemi sanitari nel loro paesi d’adozione, trascurano i sintomi precoci e si presentano al medico solo quando sono costretti a chiedere aiuto”. Uno studio presentato nel corso del medesimo convegno ha esaminato la condizione di 11.000 migranti e rifugiati. Fra quelli colpiti da tumore (seno, colon e polmone soprattutto), «Quasi la metà dei pazienti si sono presentati in uno stadio avanzato della malattia e quasi la metà non ha completato le terapie, uno su tre perché non è tornato in ospedale», ha spiegato Eniu.
LA SITUAZIONE IN ITALIA
Da alcuni anni anche gli oncologi italiani sono impegnati sul fronte delle pari opportunità di cura e di prevenzione. Gli immigrati hanno raggiunto l’8,1% della popolazione e sono quasi cinque milioni. Il 90% di loro ha meno di cinquant'anni e sono, in generale, in condizioni di salute migliore rispetto agli italiani. Come evidenziato anche nel recentissimo rapporto sui tumori in Italia, sono esposti a un rischio oncologico, in generale, più basso, ma sensibilmente più elevato per alcuni tumori, quelli legati a fattori infettivi, come il cancro della cervice, del fegato, dello stomaco e del rinofaringe.
Proprio il tumore della cervice uterina merita un’attenzione particolare. Legato a doppio filo con un’infezione persistente da papillomavirus umano (HPV), piuttosto diffusa e quasi sempre asintomatica, ha visto abbattere il tasso di mortalità in Europa grazie alla diffusione degli screening tramite Pap-test. L’esame, che il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) in Italia offre ogni tre anni alle donne dai 25 anni in poi, permette di rilevare e rimuovere lesioni anche in fase pretumorale. Ad esso si è aggiunto recentemente il test per rilevare la presenza del virus (HPV-DNA test), raccomandato dopo i 35 anni, poiché permette di discriminare efficacemente fra le donne portatrici dell’infezione, e quindi più a rischio, e quelle che invece possono effettuare i controlli con Pap-test con intervalli temporali più lunghi. E c’è da aspettarsi che, grazie alla vaccinazione contro l’HPV per le ragazze, negli anni a venire l’incidenza della malattia calerà ancora.
INSISTERE SUGLI SCREENING
Questo contesto però cambia per molte donne provenienti da altri paesi, specie da quelli a forte pressione migratoria. Come segnala il rapporto AIOM/AIRTUM, infatti, il cancro del collo dell’utero è fra i tumori più diffusi in Romania, Marocco, Filippine, India, Tunisia, Ucraina, Albania, Polonia, Cina. E lo stesso vale per la diffusione del papillomavirus. Fra le donne immigrate, rispetto alle italiane, si riscontrano più tumori e meno lesioni preinvasive: in altre parole si arriva tardi. Ecco perché gli oncologi raccomandano di promuovere i programmi di screening in un’ottica multiculturale e esprimono un certo ottimismo: anche se le risposte all’invito ai controlli in generale sono ancora inferiori a quelle delle italiane, la partecipazione migliora col passare degli anni di permanenza in Italia. Buoni motivi per insistere con gli sforzi per l’integrazione, anche alla voce prevenzione.
