Cardiologia

L’ipertensione mette a rischio il cuore dei migranti

Rispetto ai coetanei italiani, i migranti hanno tassi di ipertensione superiori del dieci per cento. Secondo uno studio dell’università di Pavia contano il cambio di stile di vita e le difficoltà economiche

I migranti che sono arrivati dall’Africa, dall’America latina e dall’India a quarant'anni soffrono di ipertensione quanto gli italiani a cinquanta. Lo ha rivelato un gruppo di ricercatori del dipartimento di medicina interna dell’Università di Pavia, che ha comparato i tassi di prevalenza dell’ipertensione tra gli italiani e una coorte di cittadini extracomunitari (nord e centroafricani, cittadini dell’America latina, indiani). Le oltre seimila persone arruolate, tra connazionali e migranti, sono state sottoposte alla misurazione del peso, dell’altezza, della pressione sanguigna e alle analisi delle urine, oltre che a un’intervista mirata a indagare i «trascorsi» sanitari.
 


IPERTENSIONE, TASSI PIU’ ALTI TRA GLI EXTRACOMUNITARI

La ricerca, presentata durante il congresso della Società Europea di Cardiologia, ha evidenziato come tra i migranti quarantenni si registrino tassi di ipertensione comparabili a quelli riscontrati nella coorte di italiani con età media cinquant’anni. Un dato sostanziato dal confronto tra categorie di persone di pari età, che ha evidenziato come la prevalenza del fattore di rischio - l’ipertensione «avvicina» l’angina pectoris, l’infarto del miocardio e l’ictus cerebrale - fosse maggiore del dieci per cento nel «cluster» dei migranti. La stessa differenza, sempre a scapito dei migranti, è stata riscontrata per la presenza di zuccheri (glicosuria) e proteine (proteinuria) nel sangue. La prima condizione può essere la «spia» del diabete, la seconda di problematiche renali (ma anche di pericardite e mieloma multiplo). Lo studio conferma alcune evidenze già portate alla luce da una ricerca pubblicata sul Journal of Cardiovascular Medicine, che aveva evidenziato come diabete, ipertensione, malattie renali, obesità e sindrome metabolica fossero più diffuse tra gli immigrati che vivono in Europa, rispetto alla popolazione nativa.

CONTA ANCHE LA “NUOVA” DIETA

Secondo i ricercatori, una delle ragioni di tali differenze è il cambiamento di stili di vita. Giungono in Italia abituati a mangiare una volta al giorno, colazione esclusa, piatti unici: composti da cereali (mais, orzo, bulgur e sorgo), legumi (niebes, gombo, ceci e fagioli), carne (per lo più stufati di manzo o pollo o maiale) e verdure (aglio, cipolle, melanzane e pomodori). Già poche settimane dopo l’approdo, però, in molti vedono cambiare le proprie abitudini alimentari. Nella dieta dei migranti, soprattutto dei bambini, compaiono così piatti pronti, ricchi di zuccheri raffinati e grassi saturi, pietanze (troppo) salate. Ovvero: tutto ciò che per anni è mancato dal loro schema alimentare. Con ricadute sulla salute da non trascurare. Al momento non esistono programmi di prevenzione particolare per la salute dei migranti. Ma sono sempre di più i gruppi di ricerca che si concentrano su questo aspetto, indagando diversi ambiti della medicina: dall’oncologia alla psichiatria, fino alla salute cardiovascolare.

SERVONO PROGRAMMI DI PREVENZIONE PER I MIGRANTI

Soltanto nel 2015, in Europa sono approdati settecentomila tra migranti e rifugiati. Già all’arrivo, il cinque per cento di loro presentava la necessità di ricevere assistenza medica. Non è soltanto il cambio di alimentazione a porre a rischio la loro salute, ma pure la variazione di stile di vita e le difficoltà economiche che affrontano al momento del loro arrivo in Paesi con abitudini differenti. Da qui all’esclusione sociale il passo spesso è brevissimo. «Dobbiamo imparare a rispondere alle esigenze di popolazioni diverse dalla nostra: dal punto di vista sociale, culturale ed economico - raccomanda Michele Gulizia, direttore dell’unità di cardiologia dell’ospedale Garibaldi-Nesima di Catania -. Servono programmi di screening studiati ad hoc per raggiungere in maniera efficace queste persone, che ormai fanno parte a pieno titolo del nostro Paese».

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