La rivista Science l’ha inserita tra le peggiori notizie del 2014. Il mondo della scienza ha sottovalutato e mal gestito l’epidemia di ebola. Una sconfitta dalla quale abbiamo imparato molto. Perché il virus ebola, se vogliamo trovare un lato positivo nel dramma che migliaia di persone stanno ancora vivendo, ha stimolato come non mai la ricerca nel campo delle tecniche di trasfusione. Stimolo che ha portato allo sviluppo di un metodo che in futuro renderà questa procedura ancor più sicura.
CURARE CON IL PLASMA
Alcuni mesi fa l’Organizzazione Mondiale della Sanità fu categorica: «Il trattamento di pazienti con trasfusioni sanguigne dai sopravvissuti alla malattia dovrebbe avere priorità immediata tra tutte le terapie sperimentali in considerazione per l’epidemia». Un approccio che sembrerebbe funzionare, così è infatti stato per il medico italiano di Emergency, dichiarato clinicamente guarito in seguito a trasfusione di sacche di sangue provenienti dalla Germania. Il principio ricorda molto da vicino quello dei vaccini: nel sangue dei sopravvissuti dovrebbero essere contenuti quegli anticorpi in grado di debellare il virus. Ecco perché ricevere sangue - in particolare il plasma - da un ex-malato potrebbe rappresentare una possibile cura per l’emergenza ebola.
VIRUS E BATTERI ANNIENTATI
Ma trasfondere plasma di una persona guarita è tutt’altro che un’impresa facile. I rischi sono elevati e la necessità di un sangue ancor più controllato diventa la priorità. Ecco perché in quest’ottica è stata sviluppata una tecnica, recentemente approvata dalla Food and Drug Administration (Fda), in grado di eliminare con successo virus e microrganismi presenti all’interno delle sacche. La tecnica consiste nell’aggiungere al plasma una sostanza che, se sottoposta a luce ultravioletta, è in grado di legarsi in maniera irreversibile a Dna e Rna presenti nel sangue. Un legame capace di impedire l’eventuale replicazione dei virus e batteri presenti nel fluido.
TRASFUSIONI PIU’ SICURE
Secondo quanto dichiarato dalla Fda, la tecnica funzionerebbe in maniera ottimale nei casi di Hiv, epatite B e C e virus del Nilo occidentale. Al momento sembrerebbero positivi anche i casi di virus ebola. Pur essendo ancora una tecnica sperimentale, secondo Michael Busch - direttore dell’ente no-profit Blood Systems Research Institute e professore alla University of California di San Francisco - «con questo approccio potremo garantire un sangue per le trasfusioni ancor più sicuro».